Skip to main content

Doppio Malto, catena di birrerie guidata da Giovanni Porcu, ha superato 40 locali, in Italia, Francia e Gran Bretagna, ma ha già l’obiettivo 2026 di arrivare a 100.

I ricavi 2023 raggiungeranno quota 60 milioni di euro. Dalla fondazione di un piccolo locale, a Erba nel 2004, l’accelerazione è arrivata con l’acquisizione da parte di Giovanni Porcu, imprenditore sardo che ha lasciato la carriera forense per questa sfida. E che ha fatto crescere l’attività in tutta Italia e anche all’estero, mantenendo però un legame importante con la Sardegna, dal momento che le birre oggi sono tutte prodotte nello stabilimento di Iglesias, con una capacità di cinque milioni di litri l’anno. Il marchio è molto presente in Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Sardegna, Veneto, ma raggiunge anche la Sicilia. E sono in arrivo altre novità, da Madonna di Campiglio a Brescia. L’insegna è attiva anche nel travel, allo scalo di Fiumicino, e all’estero, in Gran Bretagna e Francia. Di recente, Doppio Malto si è aggiudicata il Mapic Award 2023 per la categoria “Food & beverage concept of the year”.

Ecco un’intervista con Giovanni Porcu pubblicata sul numero di Dicembre di retail&food.

Come avviene la crescita della rete di Doppio Malto?

Al momento siamo equilibrati, con circa metà dei ristoranti diretti e metà in franchising, comprendendo in quest’ultimo segmento anche la joint venture, ossia quelle società affiliate in cui abbiamo investito direttamente. È un equilibrio che preferiamo mantenere, senza sbilanciare il modello dall’una o dall’altra parte.

Da cosa dipende la scelta?

La collocazione geografica e la dimensione hanno un loro peso. Senz’altro, i flagship sono tutti diretti, come ad esempio Milano Duomo, anche perché prevedono un impegno economico importante. Se penso al Sud, per esempio a Salerno, è un’area in cui siamo meno presenti, dunque abbiamo iniziato a sondare il territorio grazie a un affiliato. In una città come Roma possiamo esperire entrambi le formule.

Quindi, che caratteristiche deve avere il partner giusto?

Intanto, il nostro progetto è impegnativo e richiede uno sforzo economico rilevante. A seconda della tipologia di locale, occorre mettere in conto un investimento compreso tra 600 mila euro e 1 milione, di cui circa un terzo deve provenire come equity dalla disponibilità dell’imprenditore, il resto si recupera tramite leva bancaria. Di conseguenza, il nostro partner ideale si può definire come “istituzionale”, che non significa per forza strutturato, ma che deve sposare il progetto nel lungo periodo. L’affiliato diventa parte integrante del progetto e della sua crescita. E una volta rispettate le condizioni economiche, tutto si gioca sulla persona, sulle corde che vibrano, su alcune caratteristiche “soft” che deve possedere.

Quali?

Il primo valore è l’intelligenza emotiva. I nostri locali, infatti, vanno al di là della semplice ristorazione, ci avviciniamo quasi a un’attività di hospitality. Il nostro slogan “un posto felice” non è solo uno slogan, perché vogliamo davvero che i clienti, oltre a mangiar bene, trascorrano un bel periodo di tempo sotto tutti gli aspetti, dall’accoglienza al divertimento. Nei weekend, in alcuni Doppio Malto, il tempo di permanenza medio delle persone supera le tre ore, molto più della durata di un pranzo al ristorante. Ecco, il potenziale partner deve essere sensibile a questo. A far stare bene la gente.

E dopo?

Dopo servono altri due elementi. Il primo è la capacità di leadership, perché l’imprenditore deve saper motivare il proprio team e guidarlo verso di noi. Il secondo è la responsabilità, intesa come serietà verso il progetto, verso i dipendenti e i clienti finali. In questi anni di sviluppo della catena, ho imparato che la differenza arriva dall’elemento personale, i risultati non sono legati ad aspetti tecnici. Qualunque problema di software, di operations o di organizzazione, si supera. Senza la solidità di rapporto, non si va avanti.

A proposito di rapporti, Doppio Malto appartiene al 100% a Giovanni Porcu. Nessun socio in vista? Fondi? Imprenditori?

Per il momento al timone ci sono io. Non posso negare che fare sviluppo da indipendenti sia tosto, ma attualmente questo è l’obiettivo. Poi, nel medio termine, vedremo. Certo l’ambizione di Doppio Malto è di diventare gigante, quindi più avanti potrei valutare alcune soluzioni finanziarie e di capitale. Oggi, alla domanda diretta, risponderei che piuttosto che accettare l’ingresso di un fondo preferirei allora la quotazione in Borsa. Un percorso che permette di racimolare liquidità, ma senza perdere il controllo.

Veniamo alla congiuntura. Come sono andate le vendite nella seconda metà dell’anno?

Il primo semestre dell’anno è andato bene e fino a luglio abbiamo tenuto senza problemi. Ad agosto si è avvertito qualche scricchiolio dei consumi, benché, avendo tanti locali nelle zone di villeggiatura, questi rallentamenti ci hanno colpito meno rispetto ad altre catene. Da settembre in poi, bisogna ammettere che un certo calo è stato evidente, per noi come per tutto il mercato.

Nonostante questo, il 2023 si chiuderà con un risultato in utile?

Si, chiuderemo in positivo. E lo considero un grande risultato, anche perché, più ancora che il calo dei consumi, ha pesato moltissimo l’aumento dei tassi di interesse. Inoltre, un altro aspetto che mi piace sottolineare è che il risultato positivo non si deve a un bilanciamento all’interno del gruppo, ma tutti i nostri ristoranti presentano un Ebitda positivo. Se un locale non gira, lo chiudiamo. E infatti, negli anni, è successo. Capita di sbagliare.

Doppio Malto è anche all’estero, in Francia e Inghilterra. Avete esportato il formato birreria con cucina, che senz’altro non mancava. Qual è la chiave per portare il food italiano oltre confine?

Secondo me, oggi non bisogna più pensare di esportare solo un prodotto. Nel consumo fuori casa, la qualità del cibo e delle bevande ormai va data per scontata. Anche la pizza o lo spaghetto, per quanto patrimonio di casa nostra, sono cucinati perfettamente anche altrove. Quello che oggi esportiamo è il lifestyle italiano, la capacità di essere felici, che nel nostro caso finisce sotto il cappello della birra. Non è un luogo comune, davvero oggi l’esperienza a 360 gradi del cliente è forse persino più importante del semplice consumo di cibo e bevande. Ancora di più all’estero.

In che senso?

Nel senso che, almeno in Francia e Gran Bretagna, il livello delle catene è già altissimo. E parlo sia di aspetti back hand, come i sistemi gestionali, sia di front hand, come la relazione con il cliente. Le leve da smuovere per avere successo sono quindi tantissime.

Vi espanderete in altri mercati?

Per ora no, ogni momento ha la sua sfida. In Francia stiamo aprendo un nuovo locale in affiliazione mentre nel 2024 ne arriverà un altro a gestione diretta. Non nascondo, comunque, che riceviamo tante richieste, per la Spagna, la Germania o i Paesi scandinavi. Ci penseremo quando sarà opportuno.

riproduzione riservata retail&food