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La data della Fase 2 per bar, pub e ristoranti associati a Fipe dovrebbe essere il primo giugno, ma il miraggio di una riapertura si scontra con problemi di liquidità, tassazione e burocrazia. Un primo spiraglio potrebbe arrivare dalla ripresa dell’asporto.

Chiusi da metà marzo, i pubblici esercizi che fanno capo a Fipe si avvicinano alla Fase 2 ancora pieni di incognite. Non solo in termini di modalità di servizio, ma soprattutto per quanto riguarda gli strumenti a supporto dell’impresa. In una recente lettera al Governo, i vertici dell’associazione hanno messo nero su bianco le proprie richieste: dallo sblocco della liquidità promessa a più riprese e non ancora arrivata a destinazione, alla cancellazioni delle imposte fiscali e locali passando per una moratoria sugli affitti e la reintroduzione dei voucher. In attesa delle risposte, però, Fipe non si è persa d’animo e in questi ultimi due mesi ha messo in campo diverse iniziative come il portale Ristoacasa (un aggregatore che mette in rete tutti i punti vendita della ristorazione che hanno attivato un servizio di delivery indipendente), l’app trustDelivery insieme a pOsti e EY (che fa ricorso alla tecnologia blockchain per garantire al consumatore la salubrità e integrità di ogni processo: dalla preparazione alla consegna a casa), oppure Buooono (ristobond realizzato in collaborazione con Nexi che permette di sostenere il proprio ristoratore di fiducia ricevendo in cambio un buono sconto del 25% da spendere quando il lockdown sarà concluso). Nonostante ciò, scorrendo il calendario, per bar, pub e ristoranti la data di riapertura scivola sempre più avanti. E nel frattempo? «La crisi che stiamo vivendo non sta mettendo in gioco solo un comparto economico, una serie di locali commerciali, ma un elemento identitario, sociale, storico che non è solo nostro interesse mantenere in piedi», ha affermato a r&f il vicepresidente di Fipe, Aldo Cursano.

I numeri del settore dei pubblici esercizi sono impietosi. Che grandezza ha assunto la crisi?

Nel momento in cui si parla di 30 miliardi di perdita del comparto rispetto al 2019 e di 50mila imprese ormai sul lastrico, e che con moltissima probabilità non riapriranno, direi che siamo di fronte a una tragedia che tocca oltre 300mila persone che rischiano di perdere il posto di lavoro. E stiamo parlando solo di quelle già stabilmente inserite negli organici dei vari esercizi commerciali. Se poi dovessimo aggiungere anche gli stagionali, per cui la possibilità di lavoro, con una crisi di tale intensità scoppiata a febbraio, non si presenterà proprio allora le cifre sarebbero addirittura superiori.

Come siamo arrivati a questo punto?

Gli interventi e le misure messe in atto sono state totalmente insufficienti. Non sono state promosse quelle condizioni necessarie per poter far sopravvivere attività che vivono di incassi e onorano i propri impegni lavorando giorno per giorno. Non appena la cassa si ferma, casca quel sistema fatto di piccole imprese legate non tanto ai grandi capitali o patrimoni quanto, piuttosto, al lavoro quotidiano. Certo, chi è più strutturato rimane in piedi più a lungo, ha maggiore possibilità di sopravvivenza; ma non c’è certezza sul fatto che riusciranno a uscire indenni dalla crisi.

Insomma, 25mila euro di garanzia non bastano.

Per niente. Indicare solo quella cifra come garanzia totale, pretendendo poi che venga restituita, il tutto complicato da una burocrazia infinita e irraggiungibile, significa mettere in seria difficoltà la sostenibilità di un’impresa. Noi non siamo in grado di sostenere ulteriori debiti. Se un aiuto deve arrivare, allora che sia a fondo perduto e parametrato al fatturato per garantire la sopravvivenza delle aziende permettendogli di per far fronte a costi e spese che, come le lancette di un orologio, continuano a correre al di là di qualsiasi discorso. Contemporaneamente, anche questi parametri di spesa devono essere rivisti e ricalibrati alla situazione attuale.

Questione affitti: come giudica il credito d’imposta pari al 60% del canone di locazione?

Questa soluzione devo dire che ci ha un po’ ferito. Per risponderle più esaustivamente uso una metafora. Se io sono assetato, sto morendo di sete, e vengo da lei per chiedere aiuto la risposta non può essere quella di darmi da bere domani, fra un anno. Mentre aspetto, muoio. E quell’acqua di cui avevo tanto bisogno alla fine mi servirà solo per
la benedizione finale. Insomma, c’è ancora una forte lontananza fra richieste e soluzioni. Peccato che nell’attesa, finché portiamo avanti il dialogo, si rischia di minare un modello di produzione, accoglienza ed esperienza. Qualcosa che ci invidiano in tutto il mondo. Chi viene da noi, oltre alla bellezza, viene a vivere la dimensione del rapporto umano, del territorio, del racconto che emana dalla frequentazione dei pubblici esercizi.

Come uscirne? Che proposte avete fatto al Governo?

Prima di tutto, vogliamo riaprire l’asporto. Certo, il delivery è uno strumento importante a cui molti si sono rivolti, con un incremento dal 4 al 18% di imprese coinvolte da questo fenomeno. Ma il rapporto umano è un’altra cosa. E basta una telefonata, non più per prenotare un tavolo o chiedere informazioni, quanto per ordinare quello che desidera per riallacciarlo. Inoltre, l’asporto in tutti i paesi europei è rimasta una prerogativa del mercato: dalla Francia alla Germania, passando per la Turchia sono chiuse le somministrazioni ma non le attività produttiva che hanno continuato a operare quasi a pieno regime. Una situazione che ha permesso alle aziende di salvare le maestranze e non disperdere un patrimonio di competenze e conoscenze uniche nel loro genere.

Altre iniziative necessarie?

La cancellazioni delle imposte fiscali come Imu, Tari, Tasi. Un’estensione della durata degli ammortizzatori sociali. Sgravi contributivi per chi si impegna a mantenere attivi una parte dei lavoratori. La reintroduzione dei voucher. Un utilizzo migliore degli spazi esterni. In questo senso, visto l’approssimarsi della stagione estiva, una revisione totale del plateatico, la tassa sull’utilizzo del suolo pubblico, potrebbe essere un primo passo per avere un po’ di ossigeno, per provare a imbastire un servizio di ripartenza.

Ma come vi immaginate questa ripartenza?

Il nostro punto di forza è sempre stato il contatto con le persone, la condivisione di valori, storie e passioni che girano attorno a un piatto o a un prodotto. È chiaro che ora siamo tutti impegnati a reinterpretare, a ripensare una modalità di accoglienza che deve tener conto della convivenza con il virus. Concretamente, ci stiamo attivando per raggiungere il cliente direttamente a casa attraverso una comunicazione che anticipi quelle informazioni e quei valori che ne determinano la scelta. Per quanto riguarda il punto vendita, invece, le soluzioni non mancano. È allo studio, per esempio, la gestione della fila attraverso delle semplici indicazioni semaforiche.

Come recuperare la liquidità necessaria a questi investimenti? Le banche che risposta hanno dato finora?

Attraverso Fipe stiamo cercando di sostenere il più possibile con i nostri strumenti le realtà e gli associati che sono maggiormente in crisi. Attualmente, infatti, alle banche è stato demandato il potere di decidere sulla vita e la morte di un’impresa. E lo fanno senza guardare alla storia, ai valori e alla professionalità rapportando il tutto alla circostanza difficile in cui ci troviamo. Questo lascia molto esposte diverse imprese che, non essendo grandemente patrimonializzate, non possono garantire allo stato attuale delle cose certi fondamentali e garanzie di tenuta finanziaria. E il rischio è che in questo spazio si insinui anche la criminalità.

N.G.

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