Premiumization è la nuova parola d’ordine per le aziende italiane della ristorazione commerciale. Un termine che, al di là degli inglesismi, sta indicare il tentativo di gettare un ponte fra mercato di lusso e di massa grazie a beni e servizi dedicati solo apparentemente a nicchie di intenditori ma in realtà rivolte a quante più persone possibili. Una pratica sempre più diffusa e che, il 19 aprile, è stata al centro dell’incontro tenutosi all’Università Bocconi dal titolo Food retail & ristorazione commerciale: essere casual, essere premium.
Fra i partecipanti, Luca Cheri, direttore commerciale Acqua Sant’Anna, Oscar Farinetti, patron di Eataly e FICO, Roberto Masi, managing director di Starbucks Coffee Italy, e un parterre di retailer che hanno portato al pubblico la propria esperienza. Insomma, un’occasione per fare il punto di un mercato sempre in evoluzione. A scattarne una fotografia ci ha pensato il report Essere casual, essere premium del Master Executive in Management in Food & Beverage: «Il risultato è stato definire 5 pillars su cui costruire una strategia di premiumization: menu, servizio, esperienza, sistemi e procedure, comunicazione», ha affermato Guia Beatrice Pirotti, Professore di Strategy & Food Management alla SDA Bocconi.
Il report
Per quanto riguarda il primo pilastro, il menù, il focus è stato posto sulla certificazione di ingredienti e combinazioni così da rendere unico ogni singolo prodotto: «Panino Giusto ha lanciato i panini certificati; Chef Express ha la carne firmata; La Piadineria è percepito come l’esperto di piadina, dove il prodotto è declinato in una serie di varianti che possono far divertire il consumatore; Alice Pizza ha 60 varianti di pizza con cui giocare», ha ricordato Pirotti. Per quanto riguarda il servizio, lo studio suggerisce come il confine si sia allargato: non ci si ferma solo alla somministrazione o alla vendita, ma si va oltre per occupare diversi momenti e stili di consumo (magari utilizzando l’interfaccia tecnologica per velocizzare l’ordinazione e intrattenere i clienti). Un aspetto, quello del servizio, che si lega a doppio filo con quello dell’esperienza: «Il punto vendita diventa sempre più un Point Of Discovery: il consumatore, entrando in uno store, viene immerso da un senso di meraviglia e di scoperta», afferma Pirotti. A supportare questo trittico, c’è l’insieme di sistemi e procedure che permettono la realizzazione del prodotto e la sua commercializzazione. Per tutti, l’obiettivo è solo uno: raggiungere un livello di artigianalità standardizzata e scalabile. Per farlo, si punta sulla formazione interna (come nel caso dell’Academy di Alice Pizza). Infine, la comunicazione: «Bisogna trasformare il consumatore in consum-attore», conclude Pirotti. Un esempio è Briscola (Foodation Group) che ha creato la “Confraternita della Pizza” per condividere, diventare parte attiva e intenditore del settore, interagendo i clienti con l’azienda.
Le esperienze di Eataluy e FICO
«Non si può paragonare il cibo a altri beni tipo automobili o moda: è l’unico prodotto che mettiamo dentro di noi», ha affermato Oscar Farinetti, patron di Eataly e del più recente FICO. Brand che hanno fatto della premimization il proprio biglietto da visita incrociando fin da subito una domanda di prodotti più sani, ricercati ma pur sempre riconoscibili all’interno della tradizione enogastronomica italiana. «Comportarsi bene deve essere considerato cool – ha sintetizzato Farinetti – Sarà sempre più figo dare ai propri figli un prodotto sano, a chilometro zero, etico, che fa bene; il vero lusso dev’essere spendere per cose di qualità, rinunciando ad altro». Il tutto all’interno di un ambiente accessibile, autorevole ma informale. Un obiettivo che Farinetti è riuscito a raggiungere andando oltre il difetto di storytelling che ancora penalizza il comparto alimentare Made in Italy: «Oltre a Eataly ho 20 aziende agricole biologiche, biodinamiche. Abbiamo la terra più pulita del mondo, abbiamo le aziende più controllate e pulite del mondo. Vogliamo essere i portabandiera del cibo da agricoltura simbiotica, biologica, il più possibile tecnologica. Eppure per rendere tutto questo un’esperienza univoca sono andato a imparare da da DisneyWorld a Orlando. Un consiglio? Fare il contrario di quello che ti insegnano le scuole di marketing», ha concluso Farinetti.
Dall’America all’Italia, è arrivato Starbucks
Un percorso inverso rispetto a quello di Eataly e FICO è stato compiuto da Starbucks. La catena di caffetterie nata negli Usa, infatti, non ha mai nascosto l’ispirazione tricolore alla base del proprio business che oggi conta 28mila store in tutto il mondo. Il prossimo aprirà a Milano con un formato tutto nuovo che nasce da un’evoluzione premium del classico coffe shop. Il tutto senza troppe pretese: «La mission di Starbucks è “Inspire the human spirit, one cup at a time”: non pensare troppo in grande, ma iniziare dal somministrare per bene un caffè alla volta», ha affermato Roberto Masi, managing director, Starbucks Coffee Italy. Ma quali sono i caratteri che fanno di Starbuscks un fenomeno da premiumization? «Innanzitutto, siamo un experiential brand: i nostri punti vendita sono dei terzi luoghi fra casa e lavoro, posti in cui si può crare un legame, una relazione di fiducia e trasparenza fra barista e cliente a partire dal prodotto», ha sottolineato Masi. Un atmosfera ricercata a partire da un arredo confortevole che, nei dettagli, rende ogni store un posto unico.
La tavola rotonda
A concludere l’incontro in Bocconi, una tavola rotonda che ha visto Andrea Aiello, direttore di retail&food, nel ruolo di moderatore. Al suo fianco sul palco i manager di diverse realtà che stanno perseguendo con decisione la strada della premiumization. Il primo a prendere la parola è stato Antonio Civita, amministratore delegato di Panino Giusto: «Il nostro panino esce dal concetto di snack per diventa vera cucina e puntando a diventare un icona del nostro patrimonio culinario nazionale mantenendo la sua caratteristica di prodotto espresso. Tanto che stiamo cercando di ottenere la certificazione vero Panino Italiano, come ha fatto la piazza napoletana all’Unesco». Un riconoscimento, quello della pizza, su cui poggia anche il successo di Alice Pizza: «La nostra pizza al taglio ha avuto una crescita straordinaria – ha commentato Domenico Giovannini, fondatore di Alice Pizza – Io sono un artigiano, ero pizzaiolo, ho realizzato il mio sogno grazie a una varietà che tocca le 60 referenze diverse e in continua evoluzione. Il tutto senza finire nell’industrializzazione del processo ma passando attraverso una formazione interna del personale che poi diventa vera e propria risorsa per l’intero brand con il 25% di punti vendita in mano ad ex-dipendenti». Discorso simile anche per Rossopomodoro: «La prima pizzeria l’abbiamo aperta a Napoli – ha ricordato Franco Manna, presidente del Gruppo Sebeto – Una decisione un po’ folle visto che ce in città ce ne sono 2.500. Rispetto a queste attività, però, noi siamo riusciti ad aggiungere il racconto dei nostri prodotti valorizzando le eccellenze e puntando sul passaparola che è ancora il driver più forte nel mondo della ristorazione».
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