“Decrescita felice”, slogan afferente a una corrente di pensiero fatta propria dal Movimento 5Stelle, passato sotto traccia negli ultimi anni ma di fatto principio ispiratore dell’attuale politica economica del Governo Di Maio-Salvini.
No Tav, No Tap (No Vax aggiungiamo) e a settembre la proposta di legge incardinata alla Camera dei Deputati per abrogare le liberalizzazioni varate nel 2011 dal Governo Monti, che toglierebbe ai commercianti l’autonomia nel decidere i giorni e gli orari di apertura, costringendoli ad abbassare le serrande sino a 44 domeniche l’anno.
«Il Paese ha bisogno che si stimolino i consumi, perché solo lo stimolo crea occupazione. Al contrario questa è una norma illiberale che, invece di aiutare la famiglia a trascorrere più tempo insieme, incrementerà il tasso di disoccupazione e porterà disservizio al consumatore. Sarà inoltre un duro colpo per il settore del retail e un grande regalo ai giganti dell’e-commerce, i quali lavorano 7 giorni su 7 e 24 ore al giorno, godono di una tassazione particolarmente vantaggiosa – frutto anche di una scarsa regolamentazione – e rappresentano, a differenza dei negozi fisici, un settore a bassa intensità di manodopera. Una condizione che non può che essere considerata come concorrenza sleale». Sono perentori i toni dello “J’Accuse…!” pronunciato da Mario Resca, presidente Confimprese – associazione che rappresenta 35mila punti vendita, 650mila addetti e 160 miliardi di ricavi – di cui retail&food condivide e porterà avanti la battaglia.
«Siamo da sempre tra coloro che sostengono la libertà, la concorrenza e la trasparenza del mercato. Per questo siamo in prima linea assieme ad altre associazioni come Confcommercio, FederDistribuzione e il Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali, che come noi sono spaventate per questa norma così draconiana – tuona Resca – Proprio in virtù di questi valori avevamo accolto con grande favore le liberalizzazioni volute dal Governo Monti, grazie alle quali, nonostante si stesse attraversando una crisi economica senza precedenti, i nostri associati decisero di investire con ritmi di oltre mille aperture l’anno, mantenuti da allora sino ad oggi. E la domenica attualmente incide per il 20% sul fatturato settimanale, con il sabato al 25 per cento. Viceversa mi chiedo cosa succederebbe se fosse approvata la norma di chiusura di 44 domeniche l’anno così come presentata attualmente in Parlamento – a firma della leghista Barbara Saltamartini –. Sarebbe decisamente recessiva perché sacrificherebbe e mortificherebbe i consumi. Consumi che in Italia valgono mille miliardi di euro, con 3,5 milioni di persone impiegate nel settore. In particolare la tipologia di consumo maggiormente colpita sarebbe quella legata all’acquisto di impulso, che nella maggior parte dei casi non viene procrastinata e quindi recuperata in un secondo momento, ma semplicemente si perderebbe».
I numeri snocciolati dal presidente dell’associazione che rappresenta le imprese del commercio a rete delineano chiaramente uno scenario drammatico: «L’Ufficio studi di Confimprese stima che nell’ipotesi più pessimistica di 44 domeniche chiuse si perderebbero 400mila posti di lavoro con un calo del fatturato del 10 per cento. Se si calcolassero, invece, le città turistiche, il dato vedrebbe una riduzione di 150mila posti di lavoro – prosegue Resca – Significherebbe quindi perdere sino al 15% della forza lavoro del Paese, già afflitto da un tasso di disoccupazione all’11%, con un Pil in forte rallentamento nel secondo trimestre. Per avere numeri ancora più precisi e certificati, stiamo investendo su ricerche svolte da società di consulenza indipendenti. Entro poche settimane contiamo quindi di arrivare a disporre di tali informazioni, che poi porteremo nelle sedi opportune avanzando una nostra proposta».
Dagli uffici milanesi di piazza Sant’Ambrogio, Mario Resca non cela la preoccupazione della propria base associativa: «Gli operatori sono allarmati, tanto da effettuare costanti riunioni sul tema, perché questa proposta di legge, se approvata, ne cambierebbe completamente il conto economico e la capacità di effettuare investimenti. I brand che rappresentiamo sono quelli che aprono i negozi fisici nei centri città, nei centri commerciali, negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie e nelle aree di sosta autostradali, che attraverso il sistema del franchising vedono protagonisti imprenditori che altri non sono che i figli dei bottegai di una volta. E anche loro subirebbero una perdita. Nel frattempo, in attesa che si definisca l’iter legislativo, si stanno bloccando le trattative tra i private equity e i retailer rispetto a possibili iniezioni di capitali sui piani di sviluppo».
Non solo consumi, posti di lavoro e investimenti sia da parte delle aziende italiane che di fondi esteri, Mario Resca nella propria disamina pone forti interrogativi anche sul mondo della produzione industriale e dell’indotto, del settore immobiliare commerciale, dei servizi al turismo, della sicurezza e ancora del gettito fiscale e degli oneri ai comuni.
«Per ogni prodotto che viene venduto all’interno di un negozio, vi è una fabbrica che lo produce e una logistica dedicata, che subirebbero l’impatto di questa normativa. I negozi nei centri urbani spesso portano a una riqualificazione degli immobili in cui si inseriscono e quindi dei quartieri e delle città, ottemperando anche a un’importante funzione di presidio del territorio. Al contrario la desertificazione porta a problematiche di sicurezza urbana. E rispetto ai centri commerciali, interventi che catalizzando grandi investimenti, questi sono diventati i luoghi che le famiglie vivono non solo per fare la spesa ma anche per trascorrere il proprio tempo libero e stare insieme. Inoltre, l’Italia è un museo a cielo aperto, detiene il record mondiale di siti Unesco, è meta di turismo culturale, enogastronomico e di business. Ma i turisti arriveranno nelle nostre città e troveranno i negozi serrati. Anche se i ristoranti potranno rimanere aperti, questi per lavorare hanno bisogno che attorno le attività commerciali funzionino», specifica Resca, che, puntando alla discrezionalità regionale/comunale nell’indicare le eventuali zone turistiche in deroga, non risparmia un’ulteriore accusa: «Sarebbe il caos, si andrebbe ad aumentare ulteriormente la burocrazia, creando asimmetrie competitive anche tra attività site in comuni limitrofi di cui alcune in località turistica e altre no. Anche per questo è evidente che le commissioni parlamentari della Camera e del Senato debbano chiedere la collaborazione a chi lavora nel settore prima di creare disastri irreparabili. Speriamo che il Governo abbia dunque un ripensamento, come già avvenuto per altre proposte di legge, e che si arrivi quantomeno a un compromesso, anche se sottolineo che la soluzione migliore resta la normativa vigente». Andrea Penazzi
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