Gli anni 20 del trasporto aereo sembrano già partire in salita: crisi dei vettori tradizionali, Coronavirus, impatto ambientale e fortissima concorrenza sembrano minare le certezze di un comparto (che si credeva) in continua crescita.
Sono passati pochi mesi dall’inizio del 2020 ma questo si preannuncia essere uno degli anni più difficili per il trasporto aereo. Complici vecchie scorie, come quelle che hanno portato alla crisi di Alitalia e Air Italy, e nuove sfide come la Brexit, quello che era considerato uno dei mercati più dinamici rischia di perdere colpi e invertire la tendenza positiva che l’ha contrassegnato. Un panorama fosco da cui, però, potrebbero emergere nuove opportunità come lo sviluppo della concorrenza europea per l’Alta Velocità e una sempre maggiore attenzione alla questione della sostenibilità ambientale. Per non smarrirsi, retail&food ha incontrato Andrea Giuricin, ceo di TRA Consulting e professore di Economia dei Trasporti all’Università Milano Bicocca: «A causa del Coronavirus e della situazione economica attuale, per la prima volta dal 2008 la IATA si attende un calo dei passeggeri a livello globale».
A che punto è la questione Alitalia?
Dopo l’insediamento del nuovo commissario unico, al posto dei precedenti tre commissari, siamo in una fase di ristrutturazione dell’azienda; che comunque continua a perdere soldi. Lo scorso anno, ha perso circa 600 milioni di euro su tre miliardi di fatturato e ancora oggi perde almeno due milioni di euro al giorno, riferendoci al primo trimestre dell’anno. È chiaro che il 31 maggio, ultima scadenza per presentare il piano di ristrutturazione, dovrà essere trovata una soluzione non facile nonostante il lavoro dei commissari. Teniamo conto, infatti, che ad oggi la compagnia va avanti solo grazie ai prestiti ponte da parte del contribuente pubblico: i famosi 900 milioni di euro più interessi per un totale di 1,1 miliardi di euro, a cui si aggiunge la tranche di 400 milioni approvata lo scorso anno. Una somma senza la quale la compagnia avrebbe già chiuso i battenti.
Sintetizzando, quali sono state le cause che hanno portato a questa situazione?
In realtà parliamo di cause di lungo periodo. Alitalia è una compagnia debole, che perde tanti soldi, ma soprattutto è una compagnia troppo piccola per il mercato globale attuale: 21 milioni di passeggeri all’anno contro vettori che arrivano fino a 150 milioni di passeggeri all’anno. Focalizzata sul mercato italiano, con una quota ormai ridotta all’8%, Alitalia non riesce a tenere il passo della competizione. Un po’ per la mancanza di corretti investimenti, un po’ per le occasioni perse nel passato. Mi riferisco al mancato merger con KLM e, successivamente, con Air France che hanno isolato il nostro vettore in un contesto in cui star da soli non è una scelta vincente.
Oltre Alitalia, anche Air Italy ha alzato bandiera bianca. Perché? E in che modo le difficoltà di Alitalia hanno pesato sull’ex-Meridiana?
Due anni fa Air Italy aveva provato a rilanciarsi comprando 30 aerei a lungo raggio e 20 a corto raggio. Un piano grandioso che non è mai stato attuato e che, paradossalmente, ha appesantito i conti della compagnia con perdite per oltre 200 milioni di euro nel 2019 a fronte di 300 milioni di fatturato. Come per Alitalia siamo di fronte a una compagnia piccola e debole a livello di patrimonializzazione. Inoltre, sebbene le maggiori responsabilità siano da attribuire al management, sul caso Air Italy hanno influito anche le vicissitudini di Alitalia che, di fatto, rappresentava un concorrente finanziato da fondi pubblici. Non la miglior condizione possibile.
Tra luci e ombre, quindi, rimane il modello low cost.
In realtà anche questo modello ha cambiato faccia. Non siamo più di fronte a un low cost come lo conoscevamo 10 anni fa ma a una forma ibrida in cui, per esempio, venivano utilizzati sempre più gli aeroporti primari e non più solo quelli secondari. Detto ciò, anche qui siamo di fronte a compagnie che sanno fare il loro lavoro e a compagnie che non hanno saputo evolversi. Easyjet, per esempio, conta 20 milioni di passeggeri in Italia e risulta del tutto profittevole. Stessa cosa si può dire di Ryanair e WizzAir che, nonostante l’etichetta di ultra low cost carrier (ULCC, ndr) hanno comunque dei margini molto elevati. Insomma, come in tutti i tipi di business bisogna saper adattarsi ai cambiamenti del mercato senza sedersi sugli allori.
Passando invece al settore ferroviario, per una volta l’Italia sembra la capofila in termini di concorrenza. Cosa dobbiamo aspettarci a livello europeo?
Proprio così, per una volta il nostro Paese è il buon esempio che viene seguito dal resto d’Europa. Da noi la competizione sulla rete ferroviaria è attiva dall’aprile 2012 quando Italo ha iniziato le sue attività. Sicuramente non è stato un percorso facile. Detto ciò, Italo è una compagnia profittevole e a distanza di otto anni possiamo riscontrare gli effetti benefici di questa iniziativa: il mercato dell’Alta Velocità è duplicato in termini di passeggeri e i prezzi del biglietto sono scesi del 35-40%. Ora, la Commissione Europea, tramite il quarto pacchetto di liberalizzazioni ha deciso di copiare il modello italiano. Certo, nell’applicazioni in ogni singolo Paese dell’Unione potranno esserci delle differenze, ma l’indicazione è stata data.
Tutto ciò potrebbe dare nuovo impulso al tema dell’intermodalità? Soprattutto per quanto riguarda l’interscambio aereotreno?
L’intermodalità è un tema sul tavolo ormai da diversi anni. Per quanto riguarda l’interscambio aereo-treno, l’Italia sconta due problemi di carattere strutturale. In primo luogo, Milano Malpensa e Roma Fiumicino, per esempio, non si trovano sulla linea ad Alta Velocità. Certo, attraverso quello che in gergo tecnico viene definita un’“antenna” il collegamento ferroviario ci può arrivare, ma la situazione è ben diversa rispetto, per esempio, all’aeroporto di Francoforte posizionato in continuità alla linea ad Alta Velocità. In secondo luogo, l’intermodalità funziona bene quando si ha un hub intercontinentale molto forte che possa sostenere il cosiddetto sistema hub & spoke assegnando al treno, che solitamente ha una capacità fra i 470 e i 570 posti, la mansione di feederaggio. Riuscire a riempire bene questo tipo di treni utilizzando aerei piccoli e senza che l’aeroporto sia già situato su una linea frequentata diventa difficile e poco remunerativo.
Quindi possiamo dire che abbiamo un problema di sottovalutazione delle infrastrutture aeroportuali?
Diciamo che per gli aeroporti bisogna ragionare sul lungo periodo. Con i tassi di crescita che ancora vivacizzano gli scali italiani, c’è il rischio che in 10-15 anni si arrivi alla loro saturazione. A mio parere, a livello politico, manca questa visione di lungo periodo che consenta di estrarre il massimo valore dal network infrastrutturale.
Totalmente superato dalla cronaca sul Coronavirus, il tema della Brexit rimane sul tavolo durante quello che è un vero e proprio anno di transizione. Quale risultato dovremmo attenderci?
Dipende tutto dagli accordi politici fra Unione Europea e Regno Unito. Alla fine potremmo trovarci di fronte a due possibili scenari: un rapporto simile a quello in vigore con Svizzera e Norvegia oppure una cesura più netta che comporterà ulteriori barriere al trasporto aereo. Questo, per le compagnie aeree è già un rischio calcolato. Soprattutto a livello di compagine azionaria. Easyjet, per esempio, si è già mossa per avere una licenza comunitaria a Vienna così da rimanere all’interno del mercato comune. È chiaro che questa incertezza, insieme a quella legata al Coronavirus, farà del 2020 un anno davvero rischioso per la positività del trasporto aereo.
Una speranza potrebbe essere rappresentata dai piani e dagli obiettivi di sostenibilità ambientale che l’intera industria sembra essersi impegnata a raggiungere.
Da un punto di vista dell’infrastruttura aeroportuale è possibile fare tanto: dai mezzi elettrici per le operazione di movimentazione degli aerei in pista, all’installazione di sistemi di generazione d’energia rinnovabile è possibile raggiungere in modo abbastanza veloce degli importanti obiettivi di sostenibilità ambientale. Per quanto riguarda le compagnie aeree, invece, nell’ottica di utilizzare mezzi elettrici, i tempi sono più lunghi; almeno al 2050. Nel frattempo, però, vettori come Easyjet si possono già fregiare del titolo di prima compagnia carbon neutral grazie a un investimento di 30 milioni di euro all’anno per ripagare le emissioni generate dai propri passeggeri.
N.G.
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