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Intervista a Daniele Contini, country manager di Just Eat Italia.

Che dati e variazioni avete registrato nel primo trimestre dell’anno?

Non possiamo rilasciare dati a livello di mercato locale. Tuttavia, i trend di performance sono stati caratterizzati
da un aumento delle richieste di food delivery, lato utente, da quando è scattato il lockdown. Lato brand, invece, la situazione è stata più oscillante nel corso delle settimane. Chi aveva già attivato il servizio di consegna a domicilio, l’unico permesso di fatto, ha dovuto prendere le misure del nuovo perimetro operativo. Chi ancora non lo aveva abilitato ha dovuto riconoscere come fosse uno strumento essenziale per rimanere operativi. Riassumendo, quindi, posso dire che ad oggi abbiamo raggiunto 13.500 ristoranti attivi sulla piattaforma e il 100% dei comuni con più di 50mila abitanti serviti. Un dato, quest’ultimo, molto importante per capire il contesto in cui si esprime il fenomeno
del food delivery: non solo le grandi città, ma anche i centri medio piccoli dove risiede buna parte della popolazione italiana.

Che policy avete implementato per la gestione degli ordini e le spedizioni?

Prima di tutto abbiamo implementato la consegna contactless, evitando i contatti diretti e mantenendo le distanze di sicurezza. Questo vale soprattutto nelle 22 città dove Just Eat fornisce soluzioni di ultimo miglio tramite fattorini. In questo caso abbiamo anche inibito la possibilità di pagare in contanti per favorire maggiormente il ricorso ai pagamenti elettronici diminuendo la possibilità di avere un contatto diretto. Lo sforzo maggiore, infine, è stato quello a livello di comunicazione: sulle app, per i rider e i ristoranti, abbiamo diffuso le linee guida condivise con Fipe. Fra queste ci sono specifiche sulla pulizia delle attrezzatura, sulla chiusura dei sacchetti e dei contenitori.

Qualche sostegno ai rider?

Sì. La distribuzione di mascherine, guanti e gel igienizzanti per tutti i fattorini della nostra rete. Sono oltre 10mila le mascherine consegnate. Inoltre, dal punto di vista economico, abbiamo messo in campo un supporto economico qualora i rider venissero contagiati da Covid-19 e dovessero necessitare di isolamento sospendendo così la loro attività. Il contributo è variabile e basato sul numero di consegne che il rider aveva mediamente effettuato nel periodo precedente.

Come è cambiato il marketing in questo periodo?

Lato clienti la nostra comunicazione si è focalizzata nel ribadire le pratiche di sicurezza e le nuove modalità di consegna attraverso i nostri canali social. Inoltre, abbiamo dato grande spazio ad alcune iniziative benefiche come la
donazione di 50mila euro all’ospedale di Papa Giovanni XXIII di Bergamo per l’acquisto di attrezzature mediche e le consegne solidali a famiglie bisognose in collaborazione con i nostri partner ristorativi e Caritas. Auspichiamo che al
temine della fase di lockdown ci sia una graduale ripresa della normalità, compresa quella legata alla presenza delle nostre campagne marketing in pensiline e mezzi di trasporto.

In che modo ha risposto e come è evoluto il consumatore?

Questo periodo di emergenza si divide fra conferme e nuovi trend. Nel primo caso rientrano gli ordini di pizza, hamburger, cibo orientale Nel secondo caso troviamo il picco dei dolci e dei gelati: +133%, soprattutto nel periodo di Pasqua. In generale, poi, a cambiare sono state le porzioni. Un buon esempio, in questo caso, viene dal sushi con ordini di porzioni formato famiglia, le classiche barche per intenderci. Anche le bevande, stante le diverse abitudini di spesa da supermercato degli italiani, hanno registrato un aumento. In generale, l’evoluzione del cliente ha coinvolto la percezione del food delivery stesso: su 30mila clienti intervistati, il 90% lo ha ritenuto un servizio essenziale; ristoranti compresi. Certo l’importanza della sicurezza gioca un ruolo primario in entrambi i casi. Infine, a causa del confinamento forzato in casa, il ricorso al food delivery si è dimostrato una coccola, un momento di evasione per il cliente.

Prima del coronavirus, solo una piccola parte degli esercenti della ristorazione usava il food delivery. Questione di concorrenza, digital divide o poca lungimiranza vista la situazione attuale?

Ancor prima dello scoppio dell’epidemia, i ristoranti erano al centro di una continua evoluzione in cui il delivery giocava la parte di servizio aggiuntivo rispetto alla sala e all’asporto. Un trend che continua anche oggi con l’aumento progressivo di brand e catene che fanno ricorso alla consegna a domicilio. Tuttavia, non dobbiamo
dimenticarci del contesto in cui i player della ristorazione operano, come le città a forte vocazione turistica che sul modello dell’ospitalità, dell’accoglienza hanno fondato un vero e proprio business. Poi c’è anche una questione di
prodotto e preparazioni: non tutti i piatti sono adatti a essere consegnati a domicilio e non tutte le cucine sono preparate per sostenere i volumi che il delivery può eventualmente generare.

Dark kitchen e virtual brand, in questo senso, possono essere una soluzione da percorrere con maggiore decisione?

In questo momento direi che il fenomeno delle dark kitchen è ancora limitato sul mercato italiano, sia in termini geografici che numerici. Su Just Eat ce ne sono alcune attive, ma non abbiamo ancora dati sufficienti per tracciarne
uno sviluppo certo. Per quanto riguarda i virtual brand, invece, il trend è più definito dal momento che aiuta i brand a definire maggiormente la propria offerta, proponendosi al cliente con la giusta soluzione, a patto di saper garantire quegli standard di qualità che già contraddistinguono l’offerta fisica.

N.G.

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