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La razionalizzazione delle reti di vendita andrà a impattare sul numero e sul formato dei negozi. Per attuare questo progetto i brand dovranno considerare le sinergie con il digitale, la tipologia e la fascia di prodotto, ma anche l’area geografica.

Stefano Vittucci, partner EY

Intervista a Stefano Vittucci, partner EY, responsabile consumer products and retail in Italia

Nelle scorse settimane Inditex ha annunciato la chiusura di 1.200 negozi nel mondo e contestualmente forti investimenti sull’online. In generale, come conseguenza del Covid-19, dobbiamo aspettarci in Italia un taglio dei punti vendita da parte dei principali operatori nazionali e internazionali del fashion (e non solo)?

Sicuramente possiamo aspettarci una razionalizzazione delle reti fisiche nell’ambito del retail. Se guardiamo al mondo del fashion, ad oggi l’eCommerce pesa in media il 15% circa, e le previsioni parlano di un forte boost con un guadagno di svariati punti di penetrazione, fino ad arrivare al 20-30%. Certamente, questa è ancora una quota di minoranza sul totale dei consumi retail, ma è molto più rilevante che in passato. Focalizzando quindi il discorso sul canale brick & mortar, il negozio fisico rimarrà strategico, ma al contempo assistiamo a un dibattito su quale dovrà essere il suo ruolo, come dovranno cambiare i formati e quali dovranno essere i numeri delle reti di vendita. In questo dibattito si possono individuare svariati temi.

Può sintetizzarci i principali?

Il primo da tenere in considerazione è che il fatturato retail che si sposta sull’online crea criticità nella copertura dei costi fissi nel retail fisico di cui l’azienda si è caricata negli anni. Un altro aspetto importante è capire come razionalizzare i canali per mantenere la redditività dei brand. Proprio il brand potrebbe essere un elemento attorno al quale creare sinergie anche con il canale online, puntando su un prodotto che vada verso l’innovazione e sfruttando il ciclo delle stagioni. Ovviamente, il canale online deve essere in grado di gestire tutto ciò che concerne il reso e il cambio merce, un aspetto che nel retail fisico viene gestito in modo istantaneo. Un ulteriore elemento da considerare è il diverso impatto della crisi sui marchi e sui consumatori: la clientela target della fascia premium ha un potere d’acquisto che è stato fortemente minato, per cui quei consumatori potrebbero essere costretti a compiere delle scelte. Al contrario, i brand più iconici si rivolgono a una fascia di consumatori diversa e potrebbero beneficiare del fatto che i loro prodotti sono percepiti come maggiormente timeless. Un ultimo tema: registriamo un impatto anche geografico sullo shopping. Mentre, prima della crisi sanitaria, per un consumatore cinese risultava molto interessante comprare ad esempio un brand italiano in Italia, ora i limiti alla mobilità stanno bloccando questo flusso a beneficio della mainland China. Guardando ai dati del lusso, i cinesi rappresentano circa il 30% del consumo mondiale e, di questa percentuale, il 50% viene acquistato nei loro viaggi in Europa. Adesso questo trend potrebbe invertirsi, con un impatto positivo sulle reti fisiche ubicate in quelle aree geografiche e anche parzialmente sull’online.

Tra le principali vie dello shopping, i centri commerciali, i department store e gli oultet, quale tipologia di canale rischia di subire maggiormente l’effetto della crisi?

I department store potrebbero soffrire particolarmente, anche per una questione di attitudine o di nuove abitudini del consumatore. A mio avviso, infatti, il negozio fisico diventerà sempre più un hub: un luogo dove il cliente cerca un rapporto diretto con il brand, dove trova un assortimento completo e dove verifica tutto quanto ha vissuto in precedenza ad esempio su Internet e sui social media. Di conseguenza, il negozio posizionato in ambito high street può diventare un punto di riferimento, che può beneficiare anche del rinnovato interesse per la prossimità. Inoltre, i department store, così come i mall, sono luoghi di aggregazione che possono subire maggiormente le tematiche legate alla sicurezza e al distanziamento sociale. Il canale outlet, invece, dovrebbe continuare a ricoprire un ruolo rilevante anche per le attuali esigenze di smaltimento di stock. Trasversalmente a tutti questi canali pesa il mancato fattore turistico, che, tuttavia, incide molto per quei department store e quei centri che, proprio grazie a un’organizzazione specifica, puntano su questa fascia di clientela per estendere la propria catchment area.

In questi mesi l’eCommerce è cresciuto addirittura a tripla cifra, anche se la fine del lockdown ha riportato l’attenzione sui negozi fisici. Come cambieranno questi ultimi in termini di format e servizi per realizzare quel concetto di omnicanalità di cui si parla da anni e che potrebbe vedere adesso una forte accelerazione?

Il Covid ha accelerato tutto il processo di digitalizzazione. A mio avviso, questo periodo è stato un grande test. Se prima della crisi sanitaria, di fronte all’alternativa tra online e fisico, alcuni operatori potevano ancora scegliere il secondo, i limiti alla mobilità hanno reso talvolta il canale dell’online l’unica possibilità per soddisfare un’esigenza di acquisto. E questa costrizione ha messo alla prova anche la capacità delle aziende già attive sull’eCommerce, portando alla luce eventuali criticità. Venendo alla sua domanda, in una logica di omnicanalità i negozi si dovranno evolvere per assomigliare un po’ di più a degli atelier, dove si offrirà un’esperienza al cliente il più possibile customizzata. Ma, oltre a questo, i brand dovranno essere pronti a offrire una seamless customer experience, cioè un’esperienza simile o identica su tutti i touch point: dal digitale al fisico. Per raggiungere tale obiettivo gli operatori dovranno implementare un processo in cui una transazione o più semplicemente una relazione con il consumatore possa incominciare online e completarsi nel negozio fisico o viceversa, aspetto, quest’ultimo, sempre più importante. Tutto ciò implica varie tematiche, legate alla digitalizzazione, agli investimenti, al pricing, alla disponibilità di prodotto, perché anche il magazzino e la gestione degli stock devono essere un continuum tra online e offline. In questo modo l’azienda può arrivare a indirizzare persino le scelte del consumatore sulla base della logistica. In sintesi, il fattore flessibilità diventa davvero molto importante.

Ovviamente tutto ciò comporta forti investimenti.

Parlando di omnicanalità e quindi di nuove strategie e di trasformazione, ovviamente non si può prescindere dagli investimenti. Guardando a questa difficile fase di mercato, credo che tale percorso non si possa completare in pochi mesi, ma al contrario 2 o 3 anni. Ovviamente chi ha iniziato prima si trova avvantaggiato e chi è rimasto indietro necessita di un’accelerazione. In questo momento bisogna trovare soluzioni efficienti, sostenibili dal punto di vista dei costi e attuabili in tempi abbastanza rapidi. Per gli operatori che partono da zero, una soluzione nel breve periodo potrebbe essere quella di avviare delle partnership con piattaforme eCommerce già esistenti, come abbiamo visto fare anche da alcuni operatori della GDO.

Arrivando al tema della ristorazione, molte catene stanno completando la riapertura dei propri ristoranti, ma alcune hanno già ripreso anche lo sviluppo vero e proprio. Superata questa fase iniziale, il food tornerà a correre come prima?

Il lockdown ha portato a un repentino spostamento all’interno delle mura domestiche dei pasti precedentemente consumati fuori casa. Il pieno recupero dei volumi ante covid temo che non sarà cosi immediato, in primis perché il consumatore dimostra ancora una certa cautela. Ma c’è un secondo motivo, più esogeno, che riguarda il perdurare delle misure di contenimento. Il vero tema, infatti, è il numero dei coperti limitato. A questo si lega la possibilità di generare volumi. Ulteriore criticità: il mancato turismo. Si dovrà capire quali potranno essere i flussi in futuro, considerando che permangono restrizioni alla mobilità. Restrizioni che incidono anche sulle attività lavorative che portavano allo spostamento delle persone. Sicuramente, ad oggi, è necessario effettuare investimenti per adeguarsi alle tematiche di sicurezza e al mantenimento delle stesse. Aggiungo, a tutto questo, il tema della location: alcune soffriranno più di altre. Questo proprio in virtù delle limitazioni alla mobilità. A subire maggiormente l’impatto della crisi saranno soprattutto gli operatori indipendenti e i soggetti più piccoli, mentre i grandi gruppi potrebbero attivare sinergie e liberare investimenti per operazioni di relocation, di adattamento dei formati o ancora per puntare alla prossimità nelle aree con i flussi più importanti. In base a un nostro modello proprietario, prevediamo che nel 2020 l’intero settore della ristorazione possa subire una contrazione compresa tra il -30% e il -45 per cento.

Di Andrea Penazzi

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