Skip to main content

Le Ferrovie rientrano nel piano di privatizzazioni del Governo. E all’interno del gruppo sono emerse visioni strategiche diverse, fino ad arrivare alla rinuncia del presidente a buona parte delle deleghe. Ma in cosa differiscono le due proposte? 

IL GRUPPO FERROVIE DELLO STATO

Il gruppo Ferrovie dello Stato Italiane – Fsi – è una delle maggiori imprese del paese per numero di dipendenti, è interamente pubblica e riceve dallo Stato trasferimenti per circa 8 miliardi di euro all’anno (12, incluso il fondo pensioni), presentando comparti in deficit strutturale, e un comparto che genera margini significativi (l’alta velocità). Nel gruppo solo la rete, gestita da Rfi, si configura come un monopolio naturale e quindi la parte servizi potrebbe essere, articolatamente e in diversa misura, aperta alla concorrenza e privatizzata, in toto o in parte. Rfi oggi è parte integrante della holding insieme alle società di servizi, e in particolare Trenitalia, che operano treni merci e passeggeri su un mercato con diversi gradi di apertura. In Italia, Fsi gode del 90 per cento circa del fatturato dell’intero settore ferroviario, caratterizzandosi come impresa fortemente dominante. Di recente, le Ferrovie sono entrate nel piano delle privatizzazioni, insieme a Enel, Poste ed Enav. Della questione, formalmente, si occupa l’azionista di maggioranza, cioè il ministero dell’Economia e delle Finanze. All’interno del gruppo Fsi sono emerse visioni strategiche diverse, che è possibile far risalire all’amministratore delegato Michele Elia e al presidente Marcello Messori. Tali divergenze hanno portato, negli ultimi giorni, Messori a rimettere le deleghe in materia di privatizzazioni e riassetto strategico del gruppo.

CEDERE SOLO UNA QUOTA AZIONARIA

La prima strategia (cui va il favore di Elia) prevede la cessione di una quota azionaria del gruppo, comunque minoritaria, al mercato. Ha l’innegabile vantaggio della semplicità (nulla cambierebbe nell’assetto funzionale dell’azienda), della rapidità, della (sperata) minor resistenza sindacale, e, verosimilmente, del consenso dei fornitori, che in genere preferiscono trattare con imprese di stampo monopolistico, piuttosto che con soggetti esposti alla pressione del mercato. Inoltre, una privatizzazione siffatta sarebbe forse conforme al disegno di creare un “campione nazionale” ferroviario. L’operazione, così impostata, presenta tuttavia due rilevanti svantaggi per la collettività. È prevedibile che i privati disposti a investire chiederebbero garanzie sia sul mantenimento dei livelli attuali dei trasferimenti, sia sul grado attuale di monopolio di cui gode Fsi. Con due possibili conseguenze: 1) un congelamento dei livelli di concorrenza. Un conflitto di interessi, che si è già presentato in altri settori (Tirrenia, Autostrade), tra esigenze di cassa dell’azionista pubblico e tutela dei consumatori/utenti e del mercato; 2) si verrebbe a creare una lobby privata, affiancata a quella pubblica, che premerebbe anche dall’esterno per il mantenimento dei “diritti acquisiti”, cioè dello status quo (come avvenuto nel settore autostradale). Quanto alla questione del “campione nazionale”, è lecito nutrire serie riserve circa l’utilità di averne uno, ma anche circa la probabilità di crearne uno di successo “a tavolino”, tramite operazioni finanziarie.

COME “SFOGLIARE IL CARCIOFO”

La seconda strategia (verosimilmente sostenuta da Messori) prevede di “sfogliare il carciofo”, ovvero si prefigge un graduale “unbundling” e si concretizza nel privatizzare, in fasi temporali successive, alcuni segmenti di attività di Fsi che non hanno più ragione di venire mantenuti in mano pubblica (e in monopolio) e possono operare su di un mercato in concorrenza. Una prima conseguenza sarebbe di far diminuire le dimensioni del gruppo Fsi, favorendo la concorrenza e lasciando che sia il mercato a individuare la “dimensione ottimale” delle varie imprese ferroviarie, con conseguente spinta verso una maggiore efficienza produttiva.  Posto che Rfi nella sua interezza (cioè la rete) resti in mano pubblica, da quali “foglie del carciofo” iniziare? Ci sembra di poter dire dalle merci, settore di fatto già esposto al mercato, con performance da anni insoddisfacenti. Il tema richiederebbe un approfondimento ad hoc. Qui basti solo ricordare che le potenzialità del mercato sono rilevanti, ma per realizzarle si richiederebbe qualche investimento di natura infrastrutturale (sebbene di un ordine di grandezza inferiore a quello delle nuove linee oggi in cantiere), per consentire l’introduzione di treni lunghi e pesanti su alcuni corridoi strategici. Il compratore, quindi, dovrebbe stringere un accordo di garanzia su alcuni aspetti di operatività del sistema. Altro segmento contendibile, l’alta velocità, le cui capacità di produrre margine sono note. Proprio da ciò potrebbe prendere forza l’argomento contrario: grazie all’elevata redditività dell’Av, Fsi sarebbe in grado di fare investimenti e sostenere servizi non remunerativi. Ma, a ben guardare, l’argomento non regge: lo Stato, vendendo, capitalizzerebbe da subito tali redditi, e potrebbe usare quelle risorse per sostenere altri servizi, debitamente messi a gara, evitando la logica dei “sussidi incrociati”. Anche i servizi di lunga percorrenza, oggi sussidiati per poco meno di 400 milioni/anno, potrebbero essere inseriti in uno specifico pacchetto dedicato al segmento passeggeri. Per i servizi regionali, settore quanto mai complesso e delicato, nel breve periodo sarebbe sufficiente migliorare la regolazione pro-competitiva degli affidamenti, con gare non confezionate ai soli fini di favorire l’incumbent, e che potrebbero interessare alcuni dei grandi gruppi – inglesi, tedeschi e francesi – già impegnati a gestire servizi su gomma e su ferro in molte città e capitali europee. Ipotesi strutturalmente opposta a quella, recentemente ventilata dallo stesso Michele Elia, di ingresso dell’attuale gruppo Fsi nei servizi urbani di alcune grandi città. A questo proposito, è singolare che le Ferrovie – particolarmente sensibili al fatto che i contributi pubblici per l’esercizio vengano definiti “corrispettivi” e non “sussidi” – facciano poi uso con leggerezza del termine “privatizzazione” per definire il loro ingresso nel capitale di Atm-Milano o Atac-Roma, che di privato non avrebbe certo nulla, per manifesta assenza di una sola “goccia” di capitale privato. La strategia del “carciofo” consentirebbe, senza traumi di sorta, la sostanziale separazione della rete nazionale dai servizi, con la fine del conseguente conflitto di interessi: infatti la rete maggiore sarebbe utilizzata da imprese non facenti parte della holding cui appartiene il gestore della rete stessa, come invece avviene oggi. Morale della favola: vendere una quota (20-30 per cento?) della holding rischia di essere una strategia miope, giustificata solo dal fare cassa, con benefici negativi per gli utenti e i contribuenti nel medio periodo. “Sfogliare il carciofo” sarebbe preferibile, pur richiedendo un orizzonte per alcuni segmenti più lungo, un piano industriale articolato e molto coraggio nell’affrontare interessi consolidati dentro e fuori il gruppo. Ma, alla fine, se si associano ai ricavi immediati anche gli effetti sulle casse pubbliche della maggiore concorrenza, verosimilmente la stessa resa economica dell’operazione sarebbe superiore.

Andrea Boitani, Marco Ponti, Francesco Ramella e Marco Spinedi

Il testo riprodotto è tratto da www.lavoce.info