In audizione alla X Commissione Attività produttive, commercio e turismo della Camera dei Deputati, Massimo Moretti ha argomentato il giudizio negativo sulla proposta di legge che riporterebbe la normativa sulla regolamentazione delle aperture domenicali e nelle festività a prima del 2011.
Un Massimo Moretti combattivo, con la mente inchiodata a poche ore prima quando – in data 1 ottobre – ha parlato alla X Commissione Attività Produttive, Commercio e Turismo della Camera dei Deputati, non lascia dubbi sull’intensità della tempesta che sta per abbattersi sul settore della distribuzione e dell’immobiliare commerciale. Tema – relativo alla proposta di legge finalizzata ad abrogare le liberalizzazioni varate nel 2011 dal Governo Monti, che toglierebbe ai commercianti l’autonomia nel decidere i giorni e gli orari di apertura, costringendoli ad abbassare le serrande sino a 44 domeniche l’anno – che vede r&f schierata al fianco del Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali, Confimprese, FederDistribuzione e di tutte quelle realtà che guardano allo sviluppo e all’ammodernamento del Paese quale stella polare.
«Questa proposta di legge tocca un tema essenziale e deve essere chiara la nostra posizione: allo stato attuale la nostra valutazione è negativa – ha dichiarato a r&f il presidente del CNCC – Chiediamo al Governo di approfondire, attraverso una società o un ente indipendente, i dati che abbiamo sottoposto alla Commissione. E se, al termine di questa verifica, vorrà effettuare delle proposte noi le valuteremo serenamente. Successivamente ognuno si assumerà le proprie responsabilità». Moretti è un fiume in piena, ed è pronto a dissotterrare l’ascia di guerra: «Non escludiamo alcuna soluzione. Valuteremo ogni possibile scenario, anche di natura legale, e sono già al vaglio iniziative in termini di comunicazione al consumatore».
Ma, dopo avere pubblicato i numeri di Confimprese (vedi intervista a Mario Resca, r&f di ottobre 2018) relativi alle imprese del commercio a rete, con un numero complessivo di 150mila posti di lavoro a rischio, quale sarebbe l’impatto delle contro-liberalizzazioni sul segmento dei centri commerciali?
«C’è innanzitutto un tema di occupazione – ha specificato Moretti, presidente del CNCC – Alla commissione abbiamo evidenziato un dato di 40mila posti di lavoro a rischio, facilmente calcolabili. Considerando infatti i 553mila addetti diretti che lavorano in questo ambito, togliendo una giornata lavorativa se ne perderebbero 79mila unità. Ottimizzando poi la gestione delle risorse, partendo dalla componente degli straordinari sino a quella dei turni, il risultato di circa 40mila sarebbe attendibile. Afferente ovviamente a contratti di durata e natura diversi».
Non è meno importante, a seguire, il tema dei consumi, con quanto ne deriva in termini di Pil e gettito fiscale. «Partiamo da un doppio assunto. Il primo, che l’inizio dell’anno è stato debole e che oggi siamo ai livelli del 2005: ben lontani quindi dal picco del 2007. Il secondo riguarda il decreto Monti: siamo convinti abbia scongiurato il riflettersi sui consumi del crollo del Pil registrato nel 2013. Se venisse approvata questa riforma, crediamo che si perderebbero tutti gli acquisti ludici e di impulso legati alla domenica, giorno che per gli shopping centre incide sul fatturato settimanale per il 15-25%, con una media del 18,4 per cento. E se pensiamo che il giro d’affari annuo dei centri commerciali in Italia è di circa 51 miliardi di euro, generato dai 35mila negozi al loro interno, è facile trarre le conclusioni. Ma qualcuno – ha sottolineato Moretti – crede che gli acquisti verrebbero spalmati sulla settimana: ammesso e non concesso che ciò accada, sarebbe necessario un periodo di rieducazione del consumatore dopo che per anni ha usufruito di questa possibilità. E nel breve medio termine ciò porterebbe sicuramente a un calo dei consumi, con effetti sullo sviluppo economico, sul gettito fiscale e sulla sfera occupazionale. Aggiungo, per rispondere a chi sostiene che questa riforma mira a tutelare il piccolo commercio, che nelle nostre gallerie operano ben 9mila tra franchisee e singole attività, che sono quindi imprenditori locali».
Ma i numeri sull’impatto occupazionale e del giro d’affari del settore non sono gli unici su cui Moretti ha posto l’accento. Il percorso avviato dal Governo rischia, infatti, di spostare pericolosamente gli equilibri tra due mondi che solo recentemente hanno iniziato a parlarsi in un’ottica di integrazione e complementarietà, il negozio fisico e quello digitale. «Guardando alla componente di servizio, ossia la necessità di fare la spesa, gli stili di vita sono cambiati rispetto a qualche tempo fa. E lo dimostrano le 6 milioni di persone che frequentano i centri commerciali la domenica, alle quali diamo la possibilità di gestire come meglio credono il proprio tempo libero. E se addirittura estendiamo il ragionamento a tutti gli italiani che fanno acquisti la domenica, considerando i supermercati stand alone e il canale urbano, il numero sale a 12 milioni. Siamo convinti perciò che se l’online in Italia vale pochi punti percentuali, il 3-4% sui consumi totali, contro valori molto più alti per esempio in Francia (9%) e Germania (14%), è proprio in virtù dell’apertura domenicale e della diffusione del commercio sul territorio. Ma venendo meno il primo elemento, è evidente che quota parte di quel numero di persone si riverserebbe sugli acquisti online. Siete sicuri, chiedo a chi sta portando avanti la riforma, che questa sia la direzione giusta? Sottolineo ancora una volta che se l’intento è tutelare il piccolo commercio al dettaglio, il risultato sarebbe l’opposto perché questi negozianti non hanno né la possibilità di aprire una piattaforma web né la capacità di marketing per essere attrattivi nel mare magnum dell’online».
A questa considerazione se ne aggiungerebbero altre: «L’e-commerce non favorisce i prodotti italiani perché le centrali di acquisto sono distanti dall’Italia; per unità di fatturato, e ci sono studi che lo dimostrano, si può arrivare fino al 90% della riduzione della forza lavoro; il gettito fiscale sarebbe decisamente inferiore a quello che garantiscono i negozi fisici; il mancato rispetto delle regole, non solo quelle macro ma anche quelle micro, che caratterizza alcuni player sulle vendite online. Un dato di fatto, quest’ultimo, che determina un vantaggio competitivo improprio. Ancora, sarebbe colpito il settore immobiliare commerciale italiano, già sofferente rispetto a quello di Francia e Spagna in termini sia di valori a mq sia di volumi complessivi: oggi agli occhi degli investitori internazionali beneficiamo di un vantaggio competitivo importante dato proprio dalle aperture domenicali, vantaggio che sarebbe perduto. In questo momento molti investitori, e lo vedremo confermato nei numeri a fine anno, hanno bloccato determinate analisi perché vogliono capire quali decisioni prenderà il Governo. Sono tutti temi su cui è bene riflettere a fronte di una proposta di legge che va nella direzione opposta rispetto a quella di aumentare la ricchezza per ridurre l’impatto del debito pubblico».
Insistendo sul concetto di concorrenza sleale, per Moretti non ci sarebbe “solo” quella tra off e online, ma quella anche in seno al settore brick&mortar: in primis alimentata dalla distonia evidente tra le località turistiche, designate dalle regioni e dagli enti locali, dove sarebbe possibile derogare alla normativa, e quelle non turistiche; inoltre generata dal criterio di rotazione di apertura nelle diverse domeniche del mese, anch’esso paventato nella proposta di legge, che equiparerebbe giorni caratterizzati da un differente potere di acquisto da parte del consumatore.
«Sottolineo, infine, che si trascura il tema dell’aggregazione – prosegue Moretti – I centri commerciali sono le nuove piazze nelle periferie urbane dimenticate, dove punti di incontro simili neanche esistono. Rappresentano un luogo che accoglie le persone senza chiedere loro il biglietto, pulito, riscaldato, condizionato, sicuro, bello e dove magari far divertire i bambini, spesso gratuitamente. Il cliente tipo, di domenica, è proprio la famiglia. La famiglia che magari ci va per pranzare a un prezzo popolare».
Mettendo quindi da parte l’aspetto numerico, nel conto di questa riforma non torna neanche quello sociale: «Diamo alle persone l’opportunità di organizzare il proprio tempo come meglio desiderano, tenendo presente che molta gente oggi lavora anche di sabato», conclude Moretti.
È una questione di rispetto delle libertà individuali, insomma, che fanno di questa querelle una battaglia di civiltà e democrazia prima ancora che economica. Andrea Penazzi
Riproduzione riservata © retail&food