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Il 12 marzo segna lo spartiacque per i commercianti alle prese con l’emergenza Coronavirus. Prima e dopo, una serie di iniziative indipendenti e decreti legge sempre più restrittivi (ma poco chiari) che hanno portato alla chiusura di tutti gli store non essenziali.

Ci sono giorni che restano impressi nella mente di tutti, compresi quei retailer che dal 12 marzo hanno dovuto forzatamente abbassare la serranda per contrastare la diffusione del Coronavirus. Prima e dopo quella data, una serie di iniziative individuali e di gruppo, nonché ricorrenti disposizioni governative, hanno caratterizzato la dinamica domanda-offerta, cambiando drasticamente le abitudini di consumo e la customer experience.

La reazione iniziale

La crisi sanitaria è iniziata il 20 febbraio. Quello è il giorno in cui, alla scoperta del “paziente uno”, fanno seguito i primi tentativi di contenimento con l’istituzione delle zone rosse del Lodigiano e a Vo Euganeo in provincia di Padova. Prove generali di successive serrate che, in quel momento però, sembravano ancora di là da venire seppure cominciassero a palesarsi i primi segnali di una serpeggiante paranoia. Soprattutto a Milano, capitale produttiva del Paese e laboratorio per le ultime innovazioni in termini retail che ha visto diminuire progressivamente il proprio bacino di clienti. A pesare, più della paura del contagio, sono state le politiche di smart working attivate da moltissime aziende del terziario avanzato e la chiusura delle scuole. Due decisioni che hanno appesantito una situazione già gravata dal blocco del turismo, soprattutto quello in arrivo dalla Cina e dai Paesi asiatici (con l’Italia che per prima ha chiuso i voli diretti con il gigante del Far East). È in queste condizioni che nasce #Milanononsiferma. Frutto della comunità di oltre 100 retailer della ristorazione attivi nell’area meneghina e spontaneamente riunitisi nell’associazione UBR (Unione dei Brand della Ristorazione), l’iniziativa lanciata da Antonio Civita di Panino Giusto, Nanni Arbellini di Pizzium e Vincenzo Ferrieri di CioccolatItaliani e presto supportata anche dal sindaco Beppe Sala aveva come obiettivo quello di mantenere i livelli di operatività del foodservice: «Esprimiamo il nostro senso comune decidendo di tenere aperti i nostri locali, aderendo all’invito che richiama Milano al buon senso e invita a scongiurare atteggiamenti che possano generare eccessivo allarme, tra cui l’immagine di una città “spenta” in tutti i sensi, senza che ve ne sia l’effettiva necessità», si leggeva nel comunicato. L’emergenza, silenziosa, però si stava facendo sempre più strada. E iniziavano i primi appelli. Compreso, per esempio, quello di Confida, associazione che rappresenta le aziende attive nella distribuzione automatica per cui l’emergenza sanitaria e le misure di prevenzione avevano già causato la perdita di circa 16 milioni di euro a settimana. Oppure, quello di Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) per cui le perdite del settore ammontavano a 50 i milioni di euro al giorno.

La stretta del 12 marzo

Lo sviluppo dell’emergenza sanitaria ha poi subito una fase di accelerazione che ha portato diversi esercenti a prendere le proprie iniziative. Chi più, chi meno, tutti si sono affrettati ad attuare misure di distanziamento sociale che hanno profondamente impattato sul servizio e la customer experience. A far precipitare la situazione, però, è stato il DPCM annunciato nella notte dell’8 marzo con cui il Governo allargava la zona rossa a tutto il territorio della regione Lombardia e ad altre 14 province. Per il retail questo significava: riduzione dell’orario di apertura di bar e ristoranti (6.00-18.00), con l’obbligo «a carico del gestore, di predisporre le condizioni per garantire la possibilità del rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro pena la sospensione dell’attività»; permesso di restare aperte a tutte le altre attività commerciali, «a condizione che il gestore garantisca un accesso con modalità contingentate o comunque idonee a evitare assembramenti»; sospensione, nelle giornate festive e prefestive, di tutte le attività nelle medie e grandi strutture di vendita, nonché degli esercizi commerciali presenti all’interno di centri commerciali e mercati. Misure molto dure che già nella giornata del 9 marzo hanno dato avvio a una serie di iniziative individuali. Fra i primi a chiudere, i 526 punti vendita del Gruppo Calzedonia: «Poiché non vendiamo articoli di primaria necessità, ci è sembrato giusto cercare di fare quanto in nostro potere, per tutelare al massimo
la salute dei nostri clienti e dei nostri dipendenti», affermò il fondatore Sandro Veronesi. Una posizione sempre più condivisa dai commercianti che hanno seguito l’esempio: da Thun a Zuiki, passando per Bullfrog, Boggi Milano, Geox, Gruppo Capri e molti altri compresi giganti come Miroglio (900 punti vendita), Kiko (340 store), Cisalfa (150 negozi). I retailer scendevano così compatti in trincea in attesa delle nuove disposizioni. L’11 marzo, infatti, il nuovo DPCM toglieva ogni minima perplessità: scattava il lockdown. «Solo pochi giorni fa vi ho chiesto di cambiare le vostre radicate abitudini di vita, rimanendo in casa il più possibile, uscendo solo lo stretto necessario. Ero consapevole che si trattava di un primo passo, e che ragionevolmente non sarebbe stato l’ultimo. È ora di compiere un passo in più, quello più importante», spiegò il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Detto diversamente: stop a tutte le attività commerciali sul territorio italiano (che ora diventa un’unica, grande zona rossa) «fatta eccezione per le attività di vendita di generi alimentari e di prima necessità sia nell’ambito degli esercizi commerciali di vicinato, sia nell’ambito della media e grande distribuzione, anche ricompresi nei centri commerciali»; sospese le attività dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie) a esclusione delle mense e del catering continuativo su base contrattuale; permessa la sola consegna a domicilio nel rispetto delle norme igienico-sanitarie sia in fase di produzione che di trasporto; consentita anche la somministrazione nelle aree di servizio carburante; chiusi parrucchieri, estetiste, barbieri. Una situazione che, in caso di nuove molto probabili direttive dovrebbe estendersi di altre due settimane dopo la deadline del 3 aprile.

Il CuraItalia

Metabolizzata la chiusura forzata, il mondo del retail si preparava a nuove sfide. Stavolta di natura economica, sociale e previdenziale. Affitti, pagamento degli stipendi, gestione delle scorte, continuità operativa dei cantieri aperti, ecc sono diventati punti interrogativi a cui il nuovo DPCM del 16 marzo definito “Cura Italia”, 127 articoli su 73 pagine per 25 miliardi di stanziamento. Nello specifico, il provvedimento (attualmente in corso di aggiornamento e ampliamento in Parlamento, ndr) prevede: un primo stop di tutti i versamenti al fisco, compresi contributi previdenziali e assistenziali e i premi per l’assicurazione obbligatoria. Per le imprese, gli autonomi e i professionisti i cui ricavi sono inferiori ai 2 milioni di euro, i versamenti alla cassa per saldare le ritenute, l’Iva annuale e mensile, nonché i contributi previdenziali e quelli Inail sono rinviati al 31 maggio e potranno essere pagati in un’unica soluzione o in massimo di 5 rate mensili. Sorte simile anche per le società attive nei settori più colpiti. Sospesi per tutti gli adempimenti fiscali con scadenza tra l’8 marzo 2020 e il 31 maggio 2020. Più in particolare, per i retailer e i tenants, è riconosciuto un credito d’imposta nella misura del 60% dell’ammontare del canone di affitto, relativo al mese di marzo. Altri crediti d’imposta del 50% sono concessi a chi si adopera per la sanificazione degli ambienti di lavoro (fino a un massimo di 20mila euro). A livello occupazionale, particolare attenzione ai lavoratori stagionali del turismo e degli stabilimenti termali: per alcuni di loro, alla data di entrata in vigore del provvedimento, viene riconosciuta un’indennità per il mese di marzo di 600 euro erogata dall’Inps, previa domanda. In generale, per 60 giorni il decreto vieta al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, di recedere dal contratto per «giustificato motivo oggettivo» e sospende le procedure pendenti avviate dopo il 23 febbraio 2020.

Il ruolo dei supermercati

In questa fase critica, a tenere alto lo stendardo del commercio è stata la GDO. Riconosciuti fin da subito come servizio essenziale, i supermercati si sono trovati al centro di una tempesta perfetta. Da un lato, l’iniziale panico ha scatenato una corsa allo scaffale, con lunghe code e mensole vuote. Dall’altro, con i servizi di delivery e click&collect avviati o potenziati, le insegne della grande distribuzione hanno svolto un ruolo sociale (consegna della spesa a casa soprattutto per i più anziani) che hanno permesso di far sentire meno isolati i cittadini consumatori. Il tutto, nel mezzo di un cambiamento epocale per quanto riguarda le preferenze d’acquisto merceologiche. A dirlo sono i dati Nielsen: dall’inizio della quarantena, la GDO ha messo in fila crescite a doppia cifra (+16% nell’ultima settimana considerata dal 9 al 15 marzo) trainate da tre diversi trend. Il primo è l’effetto stock che ha visto gli italiani riempire la credenza con alimenti a lunga conservazione: latte UHT (+62,2%), pasta (+65,3), conserve animali (+56%), farina (+185,3%), uova di gallina (+59,6%), surgelati (+48,0%), caffè macinato (+26,2%), burro (+71,9%), acqua in bottiglia (+20,1%), riso (+71,2%) e conserve rosse (+82,2%). Il secondo è l’effetto prevenzione e salute con cui i consumatori hanno cercato di premunirsi di fronte al possibile contagio: guanti (+362,5%), detergenti per superfici (+49,7%), carta igienica (+43,3%), carta casa (+52,4%), sapone per le mani sia liquido che solido (+100,3%), candeggina (+99,9%), salviettine umidificate (+196%), alcol denaturato (+169,2%), termometri (+115,9%) e fazzolettini di carta (+43,1%). Infine, l’effetto “resto a casa” che segnala la “normalizzazione” della quarantena, ossia l’accettazione da parte della popolazione delle condizione di isolamento con il tentativo di recuperare una dimensione di svago – fosse solo un semplice aperitivo – anche all’interno delle mura domestiche: affettati (+32,4%), mozzarelle (+43,4%), patatine (+31,3%), birre alcoliche (+13,8%), spalmabili dolci (+57,7%), pizza surgelata (+54,3%) e tavolette e barrette di cioccolato (+21,9%). «È trascorso un mese dall’inizio dell’emergenza sanitaria ed è ovvio che le vendite della GDO rispecchino la trasformazione della vita degli italiani in abitudini sempre più “domestiche” – ha spiegato Romolo de Camillis, retailer service director di Nielsen Connect in Italia – Sottolineiamo però che i trend di crescita durante l’ultima settimana hanno iniziato a dare forti segnali di cambiamento, in particolare a livello di formati. L’ascesa dell’eCommerce e dei negozi di vicinato rispecchiano l’esigenza di evitare lunghi tragitti casa-negozio, nonché di evitare code e assembramenti, così come il calo degli specialisti drug ha come causa principale la necessità dei consumatori di concentrare gli acquisti in un solo negozio».

Il boom del delivery

Ad avvantaggiarsi della situazione, il delivery. «Da un lato, quello alimentare con operatori che potevano già usufruire delle proprie strutture, come Esselunga o Supermercato24, e che in generale ha registrato una crescita dell’80%; dall’altro quello di alcuni retailer della ristorazione», spiega Andrea Petronio, partner Bain. Picchi che hanno messo in discussione la capacità di tenuta strutturale dei servizi di consegna a casa, sottolineando la necessità di investire e sviluppare ulteriori slot: «Ocado, in Inghilterra, per esempio, si è trovata in difficoltà nei primi giorni della crisi sanitaria con un sito bloccato e ordini inevasi». Per quanto riguarda la ristorazione, la crescita non è tanto di fatturato, quanto di contatti, e si registra soprattutto sui clienti professionali che utilizzano le piattaforme di consegna come Deliveroo (che a marzo chiuderà con un +40% di nuovi clienti) e Glovo: «Tanti ristoranti non agganciati a questo mondo si sono dovuti affrettare per continuare a operare. Il risultato, quindi, un approfondimento dell’offerta che, in ogni caso, ha subito una battuta d’arresto iniziale superabile grazie all’introduzione di protocolli di contactless delivery che rendono più affidabile il servizio». Esperienze nate nell’eccezionalità ma che stanno facendo scuola. Tanto da poterne già trarre alcune lezioni: «La prima è che il delivery grocey, da sempre sottostimato nel suo potenziale, si è affermato come leva strategica di business; detto diversamente: essere multicanale e poter servire, in condizioni e modalità diverse, i clienti riuscendo a rispondere alle loro esigenze non sarà più solo fattore vincente ma vitale per competere in futuro. Il delivery richiede competenze di organizzazione specifiche all’interno dell’azienda; il cliente è sempre lo stesso ma bisogna saper investire nei giusti segmenti e nei giusti canali per mantenere la competitività. Infine, in vista dell’auspicata ripresa, la necessità di rivedere in profondità la proposta commerciale: i consumatori usciranno da questa crisi indeboliti nel loro potere d’acquisto; chi saprà posizionarsi più velocemente nel nuovo scenario sarà avvantaggiato», conclude Petronio.

Il travel retail

Discorso a parte merita il settore travel retail aeroportuale che ha dovuto subire prima il blocco dei voli diretti da e per la Cina e successivamente una serie di restrizioni che hanno portato alla chiusura di alcuni scali e la ridotta operatività di quelli rimasti aperti: «La situazione italiana non è così diversa da quella internazionale – precisa Giovanna Laschena, vice direttore centrale economia e vigilanza aeroporti ENAC – Parliamo di una riduzione del 90-95% dei passeggeri e un’operatività legata, essenzialmente, ai voli cargo, quelli legati alla continuità territoriale e ai rimpatri sanitari di Alitalia e Neos». Non è un caso che la IATA (associazione internazionale del trasporto aereo) etichetti il 2020 come l’anno nero dei trasporti a livello globale con ricavi ridotti del 44% rispetto al 2019 per una perdita prevista di circa 252 miliardi di dollari. Nel frattempo ETRC (associazione che riunisce tutti gli operatori travel retail e duty free europei) ha scritto alla comunità europea per far sentire la voce delle aziende che lavorano all’interno degli scali: «Chiediamo alla Commissione di garantire che gli Stati membri, oltre alle misure di sostegno globali alle compagnie aeree, attuino azioni inclusive e di sostegno non discriminatorio all’interno dell’intero ecosistema aeronautico. Supponendo che le attuali restrizioni di viaggio siano revocate a fine aprile, la perdita per gli operatori aeroportuali si aggirerà intorno ai 14 miliardi di euro».

Questione affitti

Sul tavolo dell’emergenza Coronavirus, rimane la spinosa questione dei canoni di locazione (a cui dedichiamo le tre interviste a Confimprese, CNCC e Federfranchising, ndr). Tra i primi ad affrontare il tema, ancora il 12 marzo, Eurocommercial Properties che fin da subito ha concordato, caso per caso, con i tenant dei suoi otto centri commerciali gestiti in Italia un dilazione dei pagamenti degli affitti. «Questo straordinario supporto temporaneo non revoca alcun obbligo contrattuale di affitto o locazione da parte dei nostri locatari, ma potrebbe avere un impatto temporaneo sui nostri flussi di cassa», si legge nel comunicato della società olandese. A far sentire la propria voce, anche Confindustria Moda: «Per la salvaguardia dell’intero settore – recita il testo di una missiva sottoscritta da oltre 50 aziende protagoniste del settore fashion – nonché in applicazione del principio di buonafede contrattuale, chiediamo la comprensione e collaborazione di tutti i locatori nell’accogliere la nostra richiesta di sospendere la corresponsione dei canoni sino alla riapertura dei negozi e mostrare disponibilità a rinegoziare le condizioni dei contratti di locazione». Più diretto Francesco Tombolini, presidente della Camera Buyer Italia: «È il peggior marzo degli ultimi vent’anni. L’online è certo di aiuto, ma non può compensare il blocco nel fisico. Vendiamo al 14% del nostro potenziale. La previsione più ottimistica, al netto di ulteriori lockdown, è chiudere l’anno con un -26%.». Dello stesso avviso anche Federdistribuzioni, l’organizzazione che rappresenta i grandi magazzini commerciali non alimentari: «Molti gruppi stanno vivendo in questi giorni problemi di cassa», dice il presidente Claudio Gradara. Per questo, l’associazione ha scritto al Governo: «Serve l’inserimento immediato del settore nell’elenco di quelli in crisi che ci consenta l’accesso alla sospensione degli obblighi tributari e contributivi».

N.G.

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