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Più di 250 aziende e multinazionali hanno condannato l’attacco russo all’Ucraina e hanno deciso di sospendere le attività in Russia. L’elenco continua a crescere e il Paese del Cremlino è sempre più isolato.

Un vero e proprio esodo. Un gesto simbolico dal grande impatto economico.

Tra i big c’è l’IKEA che ha temporaneamente chiuso i suoi 17 negozi e le fabbriche in tutta la Russia, un settore che nel Paese coinvolge 15.000 lavoratori. L’azienda svedese manterrà aperti solo i suoi store a marchio Mega per garantire l’accesso a beni di prima necessità come generi alimentari e medicinali. Anche la produzione nei tre siti produttivi in ​​Russia sarà sospesa e tutte le importazioni e le esportazioni in entrata e in uscita da Russia e Bielorussia.

Anche il gigante dello sportwear Nike blocca l’e-commerce e chiude temporaneamente i negozi di proprietà e gestiti direttamente, continuando a pagare i dipendenti. Effetto domino anche su H&M, Mango e Inditex (Zara, Oysho, Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius) che scelgono di fermare le vendite. Il retailer spagnolo, che in Russia ha 502 punti vendita di cui 86 Zara, ha sottolineato che attuerà un “piano speciale di sostegno” agli oltre 9000 dipendenti nel paese. Per Inditex, la Russia rappresenta l’8,5% dell’Ebit totale del gruppo.

Una risposta forte alla guerra in Ukraina arriva anche dai gruppi del lusso come Chanel, Prada ed Hermès. Nella lista delle maison che hanno deciso di sospendere le attività c’è anche Lvmh che ha chiuso gli ingressi delle sue 124 boutique.

Tra i brand che hanno preso provvedimenti si segnala anche Apple. Immediata la reazione della Russia che, dopo l’annuncio dello stop alla vendita deglii smartphone di Cupertino, decide di puntare sui marchi domestici e di promuovere i suoi dispositivi “home made”.

Stessa sorte per le catene del food. Dopo le forti pressioni arrivate dai social media e dai grandi investitori per fermare le operazioni in Russia, McDonald’s (proprietaria dell’84% delle sue sedi russe) rompe il silenzio e chiude temporaneamente i suoi punti vendita, compresa la storica sede in Piazza Pushkin aperta nel 1990. Stessa scelta per Starbucks. Diversa la posizione di Yum Brands Inc. che nel Paese ha circa 1.000 ristoranti KFC e 50 sedi di Pizza Hut quasi tutte in licenza o franchising. Il gruppo sospenderà solo le attività dei ristoranti di proprietà dell’azienda KFC (circa 70) ed è in trattative con il franchisee per chiudere i 50 ristoranti Pizza Hut. Sceglie però di devolvere i profitti dei ristoranti ai rifugiati.

Non tutti, quindi, rompono i ponti con la Russia. Tra i grandi nomi che al momento risultano ancora operanti in Russia ci sono Burger King, che devolverà i profitti dei suoi 800 negozi russi (in franchising) ai soccorsi e ai rifugiati ucraini, e la catena di abbigliamento giapponese Uniqlo che ha invece difeso apertamente la decisione di non bloccare i suoi affari in Russia. “Vestirsi è una necessità di vita”, ha dichiarato il suo presidente Tadashi Yanai.

Tra chi fatica a lasciare il paese del Cremlino pesano, dunque, motivi non solo economici ma legati anche a lunghe trattative e a complessi accordi di franchising internazionali. Per le aziende che hanno trascorso decenni a coltivare il mercato russo, è una scelta complessa che mette a rischio gli stretti legami con le banche e gli investitori che gli hanno permesso di prosperare e crescere negli ultimi venti anni.

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