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A distanza di qualche settimana dal primo caso di Coronavirus accertato in Italia, anche la FIPE (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) ha fatto sentire la sua voce lanciando un sos al Governo. 

Alla base dell’appello di FIPE, le conseguenze della diffusione del Coronavirus in Italia: riduzione dei flussi turistici, chiusura di scuole e università, ricorso allo smart working per molto aziende, psicosi collettiva e provvedimenti restrittivi per contenere il propagarsi della malattia.

I dati

Secondo FIPE, al momento i pubblici esercizi italiani devono fare i conti con mancati introiti pari a 50 i milioni di euro al giorno; un numero che fa di questo comparto il comparto più colpito dagli effetti del Coronavirus. Il 72,7% degli associati, inoltre, ritiene che la crisi durerà ancora a lungo, con un peggioramento nei prossimi due mesi (con diminuzioni del fatturato che toccheranno punte fino all’80%). Una prima stima calcola in 4 miliardi di euro le perdite di fatturato del settore in tre mesi, che valgono circa 1,5 miliardi di euro in termini di valore aggiunto.

L’appello

Cifre che rendono ancor più cogente l’appello di FIPE lanciato dal presidente Lino Enrico Stoppani: «Chiediamo a gran voce il supporto delle istituzioni e di fare presto, con segnali concreti di supporto alle imprese, che altrimenti chiuderanno. Chiediamo interventi urgenti sugli ammortizzatori sociali, meccanismi di credito di imposta per sopperire almeno in parte al crollo del fatturato, la sospensione del pagamento di oneri e tributi, la sospensione degli sfratti per morosità, per venire incontro a chi nelle prossime settimane non riuscirà ad onorare i contratti di locazione e a pagare fornitori e dipendenti. Non è difficile capire che senza incassi non si possono neppure onorare i debiti. Purtroppo e inspiegabilmente, i provvedimenti presi fino ad oggi non riguardano le imprese del principale settore del turismo, quello della ristorazione, del catering, dell’intrattenimento e dei bar o pub. Chiediamo, inoltre, che venga fatta chiarezza sull’applicazione delle norme. Ci appare incomprensibile che i bar di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna non possano servire i clienti al banco. Se l’obiettivo, assolutamente condivisibile, è di evitare assembramenti, basterebbe adottare le misure di cautela suggerite dalle autorità sanitarie per ogni altro servizio, dal negozio di alimentari fino all’ufficio postale. Siamo responsabili, ma non si capisce perché in un bar ci si infetta se si prende un caffè al banco, rispettando la distanza di un metro, e non invece in fila in metropolitana o in altre situazioni analoghe permesse. Aspettiamo con urgenza provvedimenti concreti dal governo, non c’è più tempo da perdere, non saremo disposti ad accettare ulteriori discriminazioni a danno di un settore che occupa oltre un milione di addetti e che rischia di lasciare a casa oltre 40.000 persone per impossibilità di retribuirle. Occorre far presto perché l’emergenza sanitaria rischia di far saltare il banco e se chiudono le nostre attività, chiudono le luci che animano le città e si perde un patrimonio di socialità e di servizio, simbolo dello stile di vita italiano e fattore decisivo di attrazione turistica».

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