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Grazie al suo posizionamento, il format Sushi Daily rappresenta la cerniera fra food retail e GDO. Una prospettiva particolare da cui guardare all’attuale crisi sanitaria che ha colpito l’Italia e portato al lockdown del commercio al dettaglio. 

Ora che la Fase 2 si avvicina, chi come Sushi Daily è rimasto (quasi) sempre operativo rappresenta un bagaglio di know how utile per pensare alla ripartenza. Ne abbiamo parlato con Silvano Delnegro, ceo di Kelly Deli, impegnato a tirare le fila di un brand attivo in tutta Europa e che, a causa del pregiudizio che nel nostro Paese ha legato cibo orientale e pandemia, ha iniziato a farsi gli anticorpi già da fine gennaio.

Quanti sono attualmente i punti vendita Sushi Daily aperti?

In Europa circa l’85% del network è aperto, per un totale di circa 800 punti vendita attivi. Percentuale simile anche in Italia dove la rete è operativa all’80%. Direi quindi che, in termini di business e rispetto ad altri settori della ristorazione, noi godiamo di un certo vantaggio.

Per quanto riguarda le misure di sicurezza nei corner all’interno della GDO, avete dovuto apportare qualche modifica?

Il rispetto delle norme igieniche e sanitarie è sempre stato il nostro mantra, visto il tipo di prodotto che trattiamo. Quindi: frequente lavaggio delle mani, sanificazione dei piani di lavoro, utilizzo di mascherine e guanti, controlli realizzati con auditor esterni e mystery shopper interni sul cibo, ecc. Tutte misure già in essere e che abbiamo rinforzato concentrando la nostra attenzione sull’operatività all’interno del chiosco rispettando le distanze di sicurezza. Per questo abbiamo anche chiesto ad alcuni nostri franchisee di ridurre la produzione così da necessitare di meno personale senza per questo intaccare l’operatività. Fisicamente, insomma, non abbiamo dovuto apportare nessuna modifica al layout. D’altronde il format stesso dei nostri punti vendita, con il partner che lavora e confeziona il prodotto all’interno del chiosco e il cliente che sceglie il prodotto dall’altra parte del banco, garantiva già la distanza di sicurezza.

Delivery ed eCommerce, come sta procedendo lo sviluppo della central kitchen di Concorezzo?

Sul delivery non siamo ancora a pieno regime, almeno in Italia dove la central kitchen sta lavorando essenzialmente per rifornire chioschi esistenti o i dispenser frigo presenti in alcuni supermercati Carrefour. L’idea dietro alla cucina di Concorezzo infatti è quella di un servizio B2B. Ma stiamo valutando le procedure per aprirci al B2C. Nel frattempo, con alcuni retailer, stiamo testando la possibilità di utilizzare i chioschi come punti di origine per il delivery utilizzando dei player terzi come Glovo, JustEat o Delieveroo per l’aggregazione della domanda e le operazioni di consegna. Passato il periodo di emergenza pensiamo che questa possa essere una valida linea parallela di business.

Per quanto riguarda il rifornimento generale, avete riscontrato difficoltà nella continuità della supply chain?

Non abbiamo avuto grossi problemi. L’unico inghippo, nei primi giorni della crisi, è avvenuto nel Sud Italia dove alcuni distributori hanno chiuso determinando lo stop alle spedizioni e alle consegne che si è tradotto in una chiusura temporanea di circa 20 punti vendita. Un problema poi superato con una riorganizzazione logistica. In generale, la supply chain ha retto bene all’impatto del coronavirus.

Tra gli effetti dell’emergenza sanitaria, ancor prima che scoppiasse la pandemia in Italia, c’è stato un diffuso pregiudizio verso il cibo etnico orientale. Siete stati coinvolti?

Purtroppo sì. L’Italia è stato l’unico Paese dove abbiamo riscontrato, già da gennaio, l’indebolimento della domanda generata da un’abbinamento cibo-Cina-cornavirus. Buona parte dei nostri partner è di origine asiatica. A Torino, sfortunatamente, due di loro sono stati protagonisti loro malgrado di uno spiacevole episodio di aggressione. Adesso, però, con l’esplosione dei casi italiani, il pregiudizio è scemato.

In questo senso, come è cambiato il marketing per rilanciare il marchio e l’operatività?

Stiamo lavorando a un progetto di marketing che potremmo definire “back to sushi” con attività promozionali e piatti per famiglie. Nella fase 2, nonostante un rallentamento delle restrizioni, pensiamo rimarrà forte la tendenza di pranzare e cenare a casa. Certo, bisogna anche riportare i clienti a comprare con la stessa frequenza di prima quello che a tutti gli effetti è un prodotto di prima qualità. Insomma, speriamo che le persone si siano annoiate a mangiarsi sempre la pizza fatta in casa.

E quali progetti avete dovuto stoppare al momento?

In un’ottica di controllo dei costi abbiamo dovuto rallentare di qualche mese i nostri sviluppi. Ma molto dipende dai singoli Paesi in cui operiamo che stanno adottando strategie di chiusura e riapertura differenti da quelle italiane. Nel Belpaese manteniamo comunque un piano di aperture aggressivo. D’altronde, i nostri interlocutori sono i supermercati che al momento sono, giocoforza, i player più attivi e quindi più aperti a eventuali dialoghi relativi allo sviluppo futuro.

Che lezioni possiamo trarre da questa situazione?

Innanzitutto, nella sfortuna generale, possiamo dire che ci sono alcuni elementi di positività. Uno di questi sta nel fatto che, seppure l’Italia sia stato il primo Paese europeo gravemente colpito, ci ha permesso di studiare le giuste contromisure. Lezioni che poi abbiamo diffuso lungo la nostra rete anche ad altri mercati dove il contagio progrediva in maniera più lenta. Detto ciò, abbiamo un Europa a due velocità: da un lato Italia, Spagna, Francia e Gran Bretagna stanno riscontrando livelli di contagio e quindi di restrizioni più elevate; dall’altro, Germania, Olanda e Paesi Scandinavi sono riusciti a contenere più agilmente sia lo scoppio dell’epidemia che il panico. Il retail deve sapersi adattare mettendo in campo strategie di riapertura differenziate ma replicabili.

N.G.

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